Descrizione Opera / Biografia
Raziel Perin, nato nel 1992 in Hato Mayor Del Rey (Rep.Dominicana) e migrato in Italia all’età di 4 anni, è un artista multidisciplinare di base a Milano, laureatosi nel 2014 alla facoltà di Arti Visive della NABA di Milano.
Il lavoro di Perin è un processo di riscoperta delle proprie origini e di appropriazione di elementi culturali della diaspora infragenerazionale della sua famiglia, che lo ha portato a rielaborarne il retaggio e a ridefinirne i significati, nel contesto in cui vive, l’Italia. La sua opera si articola tra scultura, disegno, fotografia, pittura ed installazione. Adopera l’uso di materiali organici come tuberi, frutti e tecniche di cottura proprie della gastronomia creola e, parallelamente, esplora la spiritualità di matrice voodoo, elementi che gli sono stati trasmessi all’interno della sua famiglia.
Nel 2015 l’artista trascorre un mese di Residenza in Senegal presso il Centre de Protection Sociale, nella città di Mbour, durante cui visita l’isola di Goreè. Nello stesso anno espone nella mostra collettiva Giocando sulla soglia, a cura di Adrian Paci e Giovanni de Lazzari presso la galleria Cabinet Studiolo di Milano. Nel 2016 e nel 2017 partecipa a diverse mostre collettive e residenze nella città di Milano tra le quali citiamo Engage - Public School for Social Engagement in Artistic Research, presso la Fabbrica del Vapore, a cura di Viafarini DOCVA in collaborazione con Sunugal. Nel 2018 viene invitato a prendere parte ad una residenza di ricerca e produzione presso la Fondazione Altos de Chavòn di Casa de Campo a La Romana, un prestigioso progetto supportato da Davidoff Arts Initiative per promuovere l’arte contemporanea nei Caraibi. In questa occasione all’artista viene commissionata un’opera pubblica dal nome Rain Shelter, mi tierra, realizzata presso il Taller Don Ignacio Morales El Artistico a La Romana, Rep. Dominicana. Nel 2020 viene selezionato per la prima edizione della Residenza YGBI (Young Gifted and Black Italians)per un periodo di ricerca e formazione nella città di Firenze, un progetto a cura di Black History Month Florence in collaborazione con i curatori Simone Frangi (Milano), Janine Gaëlle Dieudji (Firenze/Lione) ed Andrea Fatona (Toronto). Nel 2020 debutta con la sua prima mostra personale A Tale of Tamarindo a cura di BHMF, come parte del progetto The Recovery Plan in collaborazione con Simone Frangi ed il ricercatore associato esperto di religioni afrodiasporiche Simao Amista, presso il Museo MA*GA a Gallarate. Il più recente progetto espositivo lo vede coinvolto nella mostra collettiva Gettare il sasso e nascondere la mano a cura di BHMF - The Recovery Plan presso MAD Le Murate Art District a Firenze.
Mami è una scultura di manioca intagliata che ha le sembianze di una sirena. Nell’ombelico e nel collo ci sono due cristalli di ametista inseriti durante il processo di essiccazione della materia organica che la compone. Questi cristalli mi sono stati donati nel 2019 da un’amica che mi aveva introdotto alla cristalloterapia.
In quello stesso periodo stavo portando avanti una ricerca su uno spirito voodoo dominicano, Santa Marta La Dominadora, da sempre presente nella mia vita sotto forma di altari che mia madre installava negli angoli della nostra casa nel Lodigiano; ho scoperto che Marta è una delle tante manifestazioni di un potente spirito ancestrale africano chiamato Mami Wata, che è stato portato dagli schiavi africani durante il periodo della colonizzazione delle Americhe e che esiste da allora, sotto forma di sirena o serpente acquatico, nel sincretismo delle religioni afrodiasporiche contemporanee.
Per me è stato interessante osservare che mia madre non conoscesse la storia che si celava dietro Santa Marta: l’aveva assimilata attraverso le manifestazioni di culto popolare della mia città natale, senza mai interrogarsi sulle sue origini. Mentre io, cresciuto in Italia e distante da tale contesto, sono sempre stato affascinato ed allo stesso tempo intimorito dal linguaggio segreto con il quale lei la invocava.
Attraverso le mie ricerche ho scoperto che l’ametista è il cristallo associato allo spirito su cui mi interrogavo. Questo mi ha spinto a formalizzare l’opera costruendo un altare organico a partire da un tubero di cui di consueto ci alimentiamo nella mia famiglia, manipolandolo ed intagliandolo per depositare le mie ametiste.
L’opera vuole essere un archivio di conoscenza ed anche una riflessione sulla perdita e il recupero di una parte dell’identità culturale e storica di cui io sono portatore, così come della possibilità di arricchire tale eredità con nuovi simboli e significati.
Mami esprime un momento di chiarezza a cui sono arrivato come individuo Italiano di seconda generazione, spinto dal bisogno di conoscere la mia storia vedendola come parte di un viaggio migratorio iniziato cinque secoli fa dai miei antenati e la cui esistenza si protrae dentro quello spirito tutt’ora latente portato fin qui, in Europa, nelle maglie della mia diaspora.