Descrizione Opera / Biografia
Così sono gli eroi, i guerrieri, i santi di Maria Ditaranto: giovani imberbi, di felice indeterminazione, acerbi custodi di una forza innocente e sfrontata, in una dimensione della soglia che li rende ricettacolo del potenziale, identità vibranti riluttanti a prestarsi a operazioni di entomologia, di voyeurismo, di feticizzazione tramite l’incartapecorimento del culto delle immagini. Anche loro, attraverso corpi-emblema, ci conducono in quel punto profondo in cui abbiamo dovuto anche noi decidere se questo fosse o no un gioco, se potessimo credere o no di poter sostenere il peso di un dolore endemico, consustanziale al vivere. Nel lavoro di Maria Ditaranto, la figura umana è sempre il nucleo in cui si mette in scena tutto il dissidio dell’esistenza, che è la materia privilegiata – forse l’unica degna d’essere trattata – dell’arte. Basta un gesto, una torsione, la posa di una mano per evocare allegorie sublimi, frammenti dispersi di mitologie dismesse, sacralità senza liturgie.
La soglia del corpo, cinque cornici – teche, nicchie, reliquiari, absidi, ostensori – rivestite d’oro, installate nello spazio della Cappella dei Celestini di Potenza. Contengono altrettante frazioni del giovane corpo di un cristo. L’ambiente è configurato alla ricerca di un’esperienza di fruizione che soppesi e consideri l’attraversamento dello spazio e il contributo di una contemplazione attiva, interpellante, esplorativa. Le immagini pittoriche dei frammenti dispersi del corpo si rivelano solo nel profondo di questi dispositivi, il cui scopo non è evidentemente quello di “mostrare”, di rendere immediatamente disponibile allo sguardo. È necessario piuttosto scrutarsi intorno, cercare, connettere, elaborare, assumere la determinazione di una sintesi in cui l’immagine del sacro non può darsi senza una qualche forma di mediata fatica.
Ciascun elemento dell’allestimento non dissimula la frammentarietà. Il volto del giovane è colto di sfuggita, il mento leggermente alzato, il capo fuori asse, la bocca socchiusa, un’aureola eccede lo spazio; solo gli occhi fanno da calibro, da registro, sfiorando lo sguardo del visitatore e stabilendo un rapporto d’ora in poi ineludibile. Una mano accenna la preghiera rivolgendo forse il palmo al cielo. Un’altra, più in là, accoglie o emana uno sbuffo materico di rosso carminio, quasi un grumo di sangue o la fiamma di uno spirito santo. I piedi affiancanti fluttuano come quelli di un mosaico ravennate. Un ombelico è il punto di tangenza in cui la divinità transita attraverso la carne, tra legame e distacco, e rivela la natura umana di quel corpo più di quanto avrebbe fatto una ferita sul costato: la madre, le viscere, il parto; il liquido amniotico, il sangue, il primo sorso d’acqua che fluisce negli organi; la discontinuità della pelle, il confine incerto delle identità, la non negoziabilità della vulnerabilità della vita.
Anche il colore e la materia pittorica non sono lì a simulare, ad affabulare, a ingannare. Per livelli sovrapposti, il chiaroscuro e le lumeggiature contrastano un fondo bruno sporco e disomogeneo, facendo emergere le figure come dichiarati artifici dell’arte. Spesso segni e cerchiature di matita intervengono sulle immagini, come a voler suggerire una determinazione geometrica, il disegno di un cartone preparatorio o la tavola di un progetto tecnico. Così come talvolta irrompono calligrafismi di colore, o brusche virate a contrasto a dare riflessi che sembrano trasparire sotto la pelle del soggetto. Si ingaggia un gioco continuo tra allusioni di superfici e volumi, in un accenno ai registri retorici simbolisti o tardogotici (Ferdinand Hodler o Jaume Huguet), così come, nella composizione, alla ritrattistica di Hans Holbein il Giovane o di Hans Memling.
L’oro che riveste le teche e campisce l’aureola del santo, infine, è il richiamo antropologico a una dimensione di elevazione. È usato sistematicamente e strutturalmente, per esempio, in quell’iconografia che oggi chiamiamo bizantina o ortodossa, e poi con altre accezioni da simbolisti e secessionisti, o dai grandi scenografi degli interni ecclesiastici barocchi. Quando è colpito dalla luce, sembra emanare esso stesso luce, piuttosto che rifletterla o assorbirla. È la materia che nella pittura non si fa veicolo semantico per rimandare ad altra materia nella finzione artistica, ma resta sempre se stessa, bucando la convenzione linguistica delle immagini e infrangendo la regola dello spazio rappresentato.
La soglia del corpo è l’interrogazione di un altrove che non si fa fiaccare dall’assenza di risposte possibili; è la ricerca di una dimensione sacrale che abbia il suo tabernacolo nella fragilità del corpo stesso. Una forma di laico misticismo, o un’epica dell’umano che non passi per un tono epigrafico, o per un’idea di risorgenza come orizzonte strumentale che consoli senza interrogare, che lenisca senza illuminare.