Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada
stampa alla gelatina d’argento, carta fotografica
150x120
« Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento. »(Santa Teresa d’Avila, Autobiografia, XXIX, 13)
La foto riflette sull’ambiguità e sulla fusione di estasi ed orgasmo, citando il capolavoro del Bernini, nega evidentemente il volto e quindi lo sguardo verso il cielo tipico del barocco. Il capo è occultato da un oggetto non riconoscibile ma
riconducibile ad una lovorazione hi-tech. Oggetto che permette il passaggio di un faccio luminoso metafora del dardo.
Nell’attesa di capolavori contemporanei.
La foto ritrae una modella di una rivista softcore degli anni ’70.